Quale spazio per l’intervento regionale in materia di diritto del lavoro?

Astretta, da un lato, dalla riserva alla potestà esclusiva dello Stato della materia dell’ordinamento civile e, dall’altro, dalla genericità dei termini impiegati, la formula dell’art. 117, comma III Cost. potrebbe, non solo apparire inconsistente, ma addirittura rappresentare un arretramento nell’evoluzione in senso federale della forma di stato.

La stessa positivizzazione del c.d. limite del diritto privato, dapprima individuato in via pretoria, risulta – quanto meno prima facie – ispirata ad una logica fortemente centralista, che assolutizza quell’approccio oggettivo nell’individuazione degli ambiti di competenza, adottato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 154/1972.

La Regione, pur guadagnando un ruolo di primo piano nella gestione amministrativa e nell’ideazione delle politiche e della tutela del mercato del lavoro (servizi per l’impiego, incentivi all’occupazione, agenzie di mediazione e di lavoro interinale, del resto già parzialmente trasferiti alle Regioni dal D. lgs. n. 469/1997) non potrebbe mai incidere sulla disciplina privatistica di tali fenomeni.

Accennavo tuttavia all’opportunità di accogliere la soluzione “minimalista” in una versione “temperata”, la quale trae ispirazione da una recente elaborazione giurisprudenziale. A partire dagli anni Novanta, la Corte costituzionale ha concesso qualche spazio (in verità, solo uno spiraglio) all’intervento regionale nel diritto privato, accantonando la sua proverbiale ostilità nei confronti delle istanze territoriali. Nel precisare la portata del limite costituito dalla disciplina dei rapporti privati, nella sent. n. 35/1992, il giudice delle leggi richiama l’esigenza di assicurare l’uniformità di disciplina e di trattamento in rapporti legati allo svolgimento delle libertà giuridicamente garantite ai soggetti privati e al correlativo requisito costituzionale del godimento di tali libertà in condizioni di formale uguaglianza, come imposto dagli artt. 2 e 3 Cost. Ragionando a contrario, si potrebbe concludere nel senso di ritenere ammissibile l’intervento del legislatore regionale anche in relazione a rapporti iure privatorum, ogniqualvolta queste esigenze non sono in discussione.

Dopo le incertezze e le reticenze che hanno continuato a marcare lungo tutti gli anni Novanta le decisioni rese in argomento dalla Corte, questo indirizzo giurisprudenziale sembrava aver ricevuto una sua definitiva consacrazione con la recentissima sent. n. 352/2001, laddove si legge che il limite (emblematicamente, non del diritto privato sic et simpliciter ma) dell’ordinamento del diritto privato non opera in modo assoluto, potendo la disciplina dei rapporti intersubbiettivi privati subire un qualche adattamento da parte della fonte regionale, quando vi sia “connessione” con la materia di competenza regionale e quando ciò risponda a criteri di ragionevolezza.

Traendo spunto da questa decisione, la quale – benché resa nella vigenza del vecchio Titolo V – conserva una sua vitalità, in quanto messa a punto quando già erano noti i contenuti della riforma, si può operare una lettura dell’art. 117 che, senza ignorare il dato testuale, conceda tuttavia un margine di manovra alla fonte regionale, ammettendone l’intervento ogniqualvolta non si corra il rischio di frantumare l’unità dell’ordinamento giuridico, producendo delle irragionevoli disparità di trattamento.

 

Un altro importante settore in cui deve sicuramente ammettersi l’intervento regionale è quello della sicurezza e dell’igiene del posto di lavoro, ricavandolo, come accennavo sopra, in parte dalla clausola generale dell’art. 117, comma III, in parte dall’assegnazione alla competenza concorrente della tutela della salute, che può secondo me interpretarsi come tutela dell’ambiente di lavoro salubre. Anche in questa ipotesi, resta aperta la questione relativa allo spessore della competenza assegnata alla Regione, erosa, da una parte, dall’incalzare della legislazione comunitaria, dall’altra, dalla riserva allo Stato dell’ordinamento civile e penale. La Regione potrà perciò predisporre misure organizzative coordinate alla tutela costituzionale dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Mai determinare gli standards in materia, posto che essi afferiscono alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ergo all’ordinamento civile. Mai predisporre un apparato sanzionatorio di tipo penale a sostegno degli obblighi di sicurezza.

 

Il dilemma dell’uguaglianza nella diversità.

Come si vede, anche quando si ammette uno spazio di intervento per il legislatore regionale, possono ritenersi scongiurati quei pericoli di eccessiva diversificazione nella disciplina dei rapporti interprivati, che rappresentano la principale preoccupazione di quanti ritengono che il nuovo riparto di competenze possa recare un vulnus alla stessa nozione di cittadinanza unitaria (è il problema del c.d. federalismo dei diritti). Del resto, il nuovo Titolo V appare disseminato di clausole di per sé in grado di fare efficacemente argine a tale fenomeno: in primo luogo, la previsione dell’art. 117, lett. m), che riserva allo Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; la stessa determinazione dei principi fondamentali nelle materie assegnate alla potestà concorrente; il potere sostitutivo da esercitare per preservare la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica o dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 120, comma II); infine, la possibilità di pilotare risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per correggere squilibri economici e sociali e favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona (si tratta di quegli strumenti c.d. di leva fiscale, che ovunque hanno potentemente contribuito a ridisegnare la distribuzione delle competenze tra centro e periferia, in quanto – pur lasciando immutata la titolarità dei poteri – possono, di fatto, trasferirne l’esercizio dal livello inferiore a quello superiore dello Stato regionale, come dimostra l’esperienza comparata).

Simili poteri “tagliano” trasversalmente la competenza regionale, sia essa concorrente ovvero esclusiva, potendo rappresentare il vettore attraverso il quale – a dispetto del dato letterale – si afferma un nuovo centralismo.

Non solo, precisa il primo comma dell’art. 120 che la Regione non può in alcun modo ostacolare la libera circolazione delle persone, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. È il limite territoriale, che corrobora il limite del diritto privato e costituisce un ulteriore antidoto alla differenziazione.

 

Prima di concludere, si deve accennare alla questione concernente l’ammissibilità di una contrattazione collettiva decentrata, il ricorso alla quale potrebbe rendere oziose le considerazioni finora svolte e inefficaci i meccanismi di riequilibrio del sistema. Se da un lato, infatti, non vi sono ostacoli di ordine teorico all’utilizzabilità di un simile strumento, dall’altro, si può rilevare che questa contrattazione di secondo livello, come si adatta alle esigenze della comunità territoriale, garantendo la flessibilità normativa del rapporto di lavoro, vero e proprio mot-clé dell’odierno dibattito in materia, così può rivelarsi uno strumento particolarmente pericoloso per quell’uniformità nel godimento dei diritti sociali che lo Stato centrale può garantire soltanto dinanzi alla legge regionale.

 

Considerazioni conclusive.

            Come si vede, malgrado i temperamenti proposti, la lettera dell’art. 117 è tale da produrre un irrigidimento nel riparto delle competenze a pretesa salvaguardia dei valori dell’uniformità e dell’uguaglianza, i quali non possono non essere reinterpretati alla luce delle trasformazioni prodotte nella forma di stato dalla l. cost. n. 3/2001.

Difficile al momento presente conferire concretezza alla riflessione, che assume inesorabilmente i toni della discettazione, quando non della mera congettura. Mutato il quadro normativo, il richiamo alla giurisprudenza elaborata nel passato appare, non solo inutile, ma addirittura dannoso e l’assenza di casi pratici su cui “testare” la portata delle innovazioni “volatilizza” la discussione. Questa fase di impasse è destinata ad essere superata non appena il Titolo V “entrerà in funzione”, con conseguente attivazione del contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, la quale con tutta probabilità sarà chiamata ad un’importante (forse abnorme) opera di definizione dei contenuti della riforma. Una simile prospettiva non può non destare qualche preoccupazione: la scarsa precisione del legislatore costituzionale apre la strada ad interpretazioni che possono condurre a risultati opposti a quelli sperati – un caso (da manuale) di eterogenesi dei fini, in cui l’effetto è quello di una riduzione, anziché di un ampliamento dei poteri della Regione. C’è anche da chiedersi in che misura la Corte, la cui opera, fino a tempi recenti, recava la marca di una complessiva “cecità regionale”, sarà in grado di soddisfare le attese delle istanze territoriali. Sono, in definitiva, i rischi classici di una riforma parziale e incompiuta e dell’opzione per un federalismo, tra l’altro, “a Corte costituzionale invariata”.

 

Tratto da:ELENA LIBONE,Il diritto del lavoro tra unità e decentramento qualche interrogativo a margine  della riforma del titolo V